Nell’anno in cui sentiamo il dovere di ricordare i 150 anni della fondazione del nostro Paese, noi cittadini ragusani abbiamo anche un altro valido motivo per far affondare virtualmente la nostra mente in quell’anno 1861. Alla notizia dell’Italia unita, infatti, si aggiunse la gioia di accogliere il primo simulacro processionale del patrono San Giovanni Battista, fino ad allora così tanto desiderato dall’intera cittadinanza. È nato, quindi, con assoluta naturalezza, l’interesse per i 150 anni di storia di questo superbo capolavoro ligneo, che evoca la figura dell’ultimo dei profeti, del più grande tra i nati di donna, di colui che ha preparato la via del Signore, senza tralasciare minimamente chi quest’opera l’ha pensata e concepita, il maestro ragusano Carmelo Licitra, inteso “Giuppino”, del quale quest’anno ricade, tra l’altro, per una pura coincidenza, il centenario della sua morte. Fino a ora tanta attenzione è stata rivolta a questo simulacro per quello che esso ha rappresentato per intere generazione di ragusani i quali, ancora oggi, continuano ad ossequiarlo e a tributargli una venerazione sempre più crescente, specialmente durante la chilometrica processione di ceri del 29 agosto, che si dipana per le vie del centro storico di Ragusa superiore.
Purtroppo, invece, pochissime considerazioni sono state riservate al simulacro in quanto opera d’arte, in parte per l’esiguità delle informazioni desunte dalle fonti in nostro possesso, nonostante il periodo storico non sia poi così remoto, in parte per le solite e ripetitive notizie della storiografia locale, anche di quella più recente. Da qui la velleità di tornare indietro di 150 anni alla ricerca di notizie utili e inedite, magari seppellite da anni di totale oblio, ma straordinariamente importanti per conoscere meglio l’opera e il suo spirito creatore. Una strada percorribile è stata quella di interpellare la discendenza di Carmelo Licitra, che per la stragrande maggioranza dei suoi componenti vive a Ragusa. È stato così che in un pomeriggio di giugno, in compagnia di un’infuocata e carezzevole brezza, è avvenuto l’incontro con il più diretto dei discendenti, persona stimabilissima e molto nota in città per la sua professione, per il quale il maestro altro non era che il suo bisnonno. Il tempo di attesa era particolarmente intenso, veniva permeato da un’emozione fortissima, incontenibile, di quelle che rare volte capita di provare nella vita, giustificata sicuramente dal fatto che pochi attimi dopo avrebbe preso inizio la tanto agognata conversazione con colui che può essere considerato il filo conduttore con il grande maestro.
Significava soprattutto scavare nel passato, ripercorrere a ritroso la storia di un ragusano comune che di mestiere faceva lo scultore, che, sebbene di periferia, veniva reputato di grande caratura, perché artefice di uno dei più bei simulacri lignei della Sicilia, che destò sin da subito l’apprezzamento e l’ammirazione dei suoi contemporanei, esattamente come accade ai giorni nostri.
Questa emozione, insomma, è la stessa che si potrebbe provare dinanzi a un discendente di artisti del calibro di Michelangelo, Raffaello, Caravaggio, Canova, monumenti sommi ed eterni che hanno scritto interi capitoli di storia.
È iniziata, dunque, dopo una rigorosa accoglienza e una sentita gratitudine, questa lunghissima chiacchierata, ricca di notizie e curiosità tramandate oralmente di padre in figlio e nobilitata dal gradevole fumo aromatizzato di una pipa, nella reciproca consapevolezza che, da questo proficuo incontro, sarebbe stato finalmente restituito il giusto merito a un artista che da troppo tempo rimane incagliato negli abissi della dimenticanza. La prima curiosità che è balzata nella mente, è stata quella di dare un significato all’appellativo Giuppino, che nel linguaggio dialettale rientra nella nutrita lista delle cosiddette “n’ciùrie”.
In una società come la nostra che si evolve incessantemente, la n’ciuria non gode più della stessa stima di un tempo e al giorno d’oggi continua a essere utilizzata finché rimarranno vivi i nostri padri.
Tuttavia è risaputa la grande importanza che i nostri avi attribuivano a questi soprannomi, perché permettevano loro di identificare in modo descrittivo un individuo o di etichettarlo scherzosamente per via dei suoi requisiti morali, fisici, così come per eventuali somiglianze ad animali e cose. Il più delle volte queste n’ciurie, da un singolo individuo, venivano addirittura affibbiate a un’intera famiglia e questo poteva continuare per intere generazioni.
Il termine Giuppino si riferisce a un tipo di specie avicola che ha la caratteristica di avere il piumaggio particolarmente variegato con una precoce tendenza allo schiarimento e quindi, nel caso di una persona di sesso maschile, è dovuto all’incipiente imbiancamento di barba e capelli.
Questo però non ci permette di sapere se l’appellativo sia stato dato direttamente a Carmelo Licitra, oppure se egli lo abbia ereditato direttamente dalla sua famiglia. Da un’attenta consultazione dell’albero genealogico della famiglia Licitra, che parte dal terremoto del 1693 sino a oggi, si evince che Carmelo Licitra nacque a Ragusa nel 1823 da una modesta famiglia di agricoltori. Dotato sin da piccolo di raffinate qualità artistiche e intellettuali, venne inviato dal padre a Palermo per eseguire l’apprendistato di scultore e intagliatore presso una delle scuole più autorevoli del capoluogo siciliano, soggiornando per tutta la durata della sua formazione presso il convento dei padri Cappuccini, che accolsero volentieri il ragazzo anche per via di una lettera di presentazione redatta dai confratelli del convento di Ragusa. Raggiunto l’apice della sua maturità artistica, egli rimase per un breve periodo in area palermitana ed è probabile che nelle zone di Monreale siano presenti alcuni suoi importanti lavori di scultura ed ebanisteria. Quando ritornò a Ragusa, con in tasca un linguaggio artistico del tutto originale e proprio, iniziò subito la sua attività lavorativa e il suo nome cominciò ad aleggiare anche al di là dei confini di Ragusa. In quegli anni sposò la ragusana Giuseppa Sbezzi, con la quale ebbe la gioia di ricevere dal Signore il dono di 13 figli. È molto suggestivo un aneddoto, legato all’interesse di uno dei figli nei confronti dell’arte e della scultura, che ingigantisce la sua grandezza di artista. Carmelo, giustamente, si sentì in dovere di comportarsi con lui così come il padre fece nei suoi confronti. Decise di far percorrere al figlio la sua stessa strada e lo inviò a Palermo nella stessa bottega da lui frequentata anni addietro per iniziare un rigoroso apprendistato, nella speranza di avere accanto a sé un grande artista e un degno erede. Ma volle il caso che il figlio, dopo poco tempo, ritornò a Ragusa per volere dei suoi maestri, perché non appena essi seppero che si trattava del figlio di Carmelo Licitra da Ragusa, capirono che non aveva più senso che il ragazzo restasse a Palermo, data la grandezza di uno come suo padre che ne sapeva certamente più di loro. Il figlio, comunque, nonostante avesse vicino un grande patrimonio come il padre, che gli insegnava i segreti più reconditi della scultura, non riuscì però a eguagliarne il talento e la fama, anzi, rimase solamente un modesto scultore e suo collaboratore. Intanto, intorno al 1860, la chiesa di San Giovanni Battista di Ragusa bandì un concorso di idee per la realizzazione del primo simulacro processionale del santo precursore. Infatti la statua che i ragusani conoscono come San Giovanni “u’niuru”, che da giugno a settembre viene esposta sull’altare maggiore, altro non è che la statua policroma da nicchia, in pietra calcarea bianca, proveniente dall’antica chiesa di San Giovanni Lo Vecchio, oggi Sant’Agnese, a Ibla. La totale inattendibilità delle esigue e non aggiornate fonti storiche, alle quali si unisce l’imprecisato numero di inesattezze tramandate verbalmente tra generazioni, non ha purtroppo mai fatto luce sulla reale storia di questo prezioso manufatto, ma ha invece rafforzato l’erronea convinzione che questa statua fosse, da sempre, la prima statua processionale, perorata in più da una vox populi originatasi nel pieno di una festa svoltasi intorno all’anno poc’anzi citato. Pare, infatti, che prima di varcare il portone della chiesa, per essere condotta in processione, la stessa divenne inspiegabilmente così pesante da far scattare subito pensieri superstiziosi, come il presagio di un altro evento calamitoso. Tutto questo indusse il comitato organizzatore, i procuratori e i sacerdoti della chiesa a prendere la decisione di continuare la processione senza la statua e di accantonarla definitivamente da quel momento. Benché le credenze popolari rimangano ancorate nel tempo in una comunità, lasciando inalterato il fascino che le avvolge, decadono però in termini di fondatezza, perché trattasi sempre di leggenda, pur arricchendo il profilo storico di un’opera d’arte. La realizzazione della prima statua processionale di San Giovanni divenne, quindi, una ghiotta occasione per i tanti candidati, scesi in campo per poter mettere in mostra le proprie potenzialità e aggiudicarsi il prestigioso incarico. Era chiaro che tra di essi non poteva non schierarsi anche il giovane Carmelo Licitra, motivato ulteriormente dall’incoraggiamento del fratello don Vincenzo Licitra, il quale benché svolgesse il ruolo di tesoriere presso la Curia vescovile di Siracusa, continuava tuttavia a mantenere contatti con la chiesa ragusana e in particolare con quella giovannea. Alla fine di un’accurata selezione di tutti i bozzetti, l’apposita commissione fermò in particolare la propria attenzione su uno di essi, che si distingueva innanzitutto per l’originale iconografia, ma intuendo in più le eccelse doti di chi lo aveva realizzato. Era il bozzetto di Carmelo Licitra, che fu così reputato degno di un’esecuzione tanto importante e al quale fu affidato l’incarico senza alcun ripensamento. Esso, di cui purtroppo se ne sono perse le tracce, doveva essere uno studio sull’attuale simulacro, supportato successivamente da un piccolo modellino in legno, quest’ultimo, stando a quanto riferito da tutti i discendenti interpellati, ancora oggi gelosamente custodito da un’altra discendente emigrata negli Stati Uniti tanto tempo fa.
Occorre soffermarsi sul venerato simulacro per capire quali erano le sue originarie intenzioni, ossia creare un’opera di grande forza e impatto, di straordinaria immediatezza, capace di toccare le corde del cuore di chi l’avrebbe guardata, come se il maestro avesse condiviso la massima di un grande pensatore come John Locke (1632−1704): <<Nulla è nell’intelletto se prima non è nei sensi>>.
Anche intorno alla realizzazione di questo simulacro gravitano piccoli aneddoti tramandati dalla tradizione popolare. Uno di essi vuole che il maestro, prima di terminare l’arduo lavoro, avesse indugiato nel trovare l’ispirazione per il volto del precursore. Capitò che un giorno rimase folgorato dai lineamenti di un mendicante, mai visto prima di allora, rannicchiato nei pressi di una chiesa, ma da quel giorno misteriosamente sparito così da far pensare a un segno divino.
Un’altra versione, che invece viene fatta risalire al periodo in cui non erano iniziati ancora i lavori, parla di un altro mendicante, dai tratti somatici molto particolari, che un giorno andò a bussare alla sua porta per chiedergli del pane e che il maestro prontamente andò a preparargli, ma al suo ritorno di questo mendicante non c’era più traccia. Lasciando da parte la suggestione di questi aneddoti, è innegabile che Carmelo Licitra abbia iniziato a lavorare sul tronco di un cipresso, alla presenza di un modello che quotidianamente frequentava la sua bottega, indicata dai discendenti nelle adiacenze dell’odierno tribunale, e che la realizzazione del volto di San Giovanni lo abbia continuamente tormentato, visto che un’altra parte della discendenza possiede tuttora un calco in gesso del volto della statua. Così come è plausibile ipotizzare che il maestro sia rimasto impietrito dalla bellezza dell’antica statua e dall’impressionante realismo del suo volto, soffermandosi in particolare a lungo su di esso per poterlo sviscerare in ogni sua parte. Guardare quindi l’antico per poter progettare il nuovo, con il proposito di volerlo superare? Non avremo mai una risposta certa su questo, ma è indubbiamente lampante l’affinità tra i due volti. Vogliamo allora immaginare il maestro immerso in questa nuova grandiosa fatica giorno dopo giorno, riversando su di essa tutta la sua abilità e altresì tutto il suo nutrito bagaglio di conoscenza che acquisì durante il suo apprendistato palermitano dove, tra disegni, studi anatomici e incisioni, ebbe modo sicuramente di studiare attentamente opere di eccellenti scultori del calibro di Donatello, Michelangelo, Bernini, Giambologna e quelle appartenenti alla statuaria greca. Quando nel 1861 egli consegnò il bel simulacro di San Giovanni alla sua Ragusa e all’eternità, tanta dovette essere l’ammirazione del popolo ragusano nel vedere l’amato santo in una veste iconografica del tutto nuova. Vestiva pelli di cammello, era ricoperto di una veste rossa, simbolo della regalità che gli veniva da Dio, portava un bastone a canne incrociate, tipico di un eremita, adagiato alla mano sinistra che regge il libro dei sette sigilli con al di sopra l’Agnello, simbolo del Cristo e suo principale attributo iconografico, oltretutto riproposto anche ai suoi piedi.
Fin qui tutto normale, ma era comunque un san Giovanni diverso, imponente, dal gesto eclatante e perentorio. Non quindi una statua rispettosa della tradizione iconografica che vede san Giovanni Battista additare l’Agnello, bensì un’iconografia completamente scardinata, pienamente ribaltata.
Nel guardare questa statua come facciamo ancora oggi noi, i nostri avi riconobbero in essa un uomo vivo, dalle morbide carni aduste, emaciate, così rimarcate da una rigida muscolatura che sembra palpitare e dà l’impressione di sentirne il sangue che scorre al suo interno. Sembra quasi di rivedere un altro “Omu vivu”, ossia la statua settecentesca del Cristo Risorto particolarmente cara ai cittadini di Scicli, che così la definiscono e affettivamente chiamano “Gioia”, la cui bellezza, contraddistinta da una linea armoniosa e da una vitalità che trova il suo culmine nel braccio destro levato in cielo, in segno di vittoria sulle tenebre, non sfuggì sicuramente all’occhio attento del maestro Carmelo Licitra.
In effetti questo spasmo muscolare fu da lui volutamente raggiunto per emulare lo stato emozionale di Giovanni il Battista, nel momento in cui scagliò parole di fuoco contro il re Erode per la scellerata condotta di vita cui era dedito e ammonendolo, mediante il gesto del braccio destro alzato, con il famoso “Non licet”, ossia “Non ti è lecito” (Marco 6, 17−28), dal momento che il monarca aveva preso come consorte la moglie di suo fratello Filippo.
Questa stessa tensione si riverbera anche nella linea nervosa del viso che appare severo, quasi collerico, accentuato da una rugosità che testimonia il suo essere stato digiunatore per vocazione e desunta, come si diceva prima, dalla statua antica. Tuttavia, perché no, nulla ci vieta di pensare che il maestro abbia voluto trasferire su quel viso qualcosa dei suoi stessi lineamenti. Nel 1861 i cittadini ragusani, pertanto, furono consapevoli di trovarsi dinanzi a una statua completamente innovativa, a un concentrato di mistica bellezza, a uno straordinario miracolo di verità e a una mirabile sintesi di forma e di vita. È un’opera potente dalla quale si fa fatica a distogliere lo sguardo, perché risponde esattamente alle esigenze per la quale è stata creata e il cui gesto meccanico del braccio destro alzato invita chiunque a seguire l’Agnello e a vivere in modo conforme alla sua Parola.
A sublimare questo eccelso capolavoro è il fastoso fercolo indorato che lo sorregge, composto da elementi naturalistici, stemmi riportanti versi della Sacra Scrittura attribuiti al santo e festanti putti che pare abbiano preso le sembianze di una figlia del maestro, nata qualche anno prima. Nel 1911, all’età di 88 anni, la lunga vita di Carmelo Licitra si spense per sempre. Per quanto passino gli anni e le persone, per quanto cambi la storia di un popolo e di una città, rimangono ancora le opere e il linguaggio insito in esse. A distanza di cento anni è doveroso dunque ricordare un figlio di questa terra che, come riporta l’iscrizione sulla lapide del suo sepolcro: <<Con l’arte onorò la sua Ragusa, con il lavoro la diletta famiglia>>.